Di seguito un articolo di Giovanni Villarosa senior security manager nonché esaminatore e deliberante per lo schema di certificazione del professionista della security. E dal suo osservatorio rileva che manca una centralità formativa, un vero progetto di riforma globale di livello legislativo che metta la GPG 3.0 al centro e che dia corpo e sensatezza politica all’obiettivo di sussidiarietà.

Questo il contributo di Giovanni Villarosa

“Il mondo della sicurezza privata sta vivendo una profonda trasformazione, tanto operativa quanto culturale. Numerose sono le istanze di chiamata alla collaborazione che emergono, ormai quotidianamente, direttamente dal comparto della cd sicurezza pubblica, di esclusiva competenza dello Stato. GPG e videosorveglianza a bordo dei mezzi di trasporto pubblico, fuori dalle discoteche, negli stadi, impiegate financo nel presidio del territorio, a supporto delle forze dell’ordine, addirittura a contrasto della pirateria marittima. Potenziali scenari di partecipazione del tutto nuovi per il comparto privato si affiancano alle più tradizionali competenze operative tipiche della vigilanza privata.

Tutto questo va inquadrato nel giusto perimetro, in un’ottica di rilancio e rinnovamento del settore come giusta risposta alle emergenti domande di security. Il settore, questo della sicurezza privata, attende ormai da anni norme di legge chiare che diano finalmente un moderno ed efficace assett alle aziende, oltre alla giusta dignità professionale agli operatori del comparto.
Si sono viste ad oggi troppe proposte di legge – diciamolo fuori dai denti – vuote nei contenuti, pregne di strutturata demagogia; proposte di legge che avrebbero voluto mettere ordine nel caos del comparto, ma che hanno creato ancora di più il vuoto normativo, dando soltanto vita ad una curiosa forza del disordine istituzionale! Non si è avuto il coraggio ad oggi – politicamente parlando – di definire una volta per tutte nel mondo delle guardie particolari giurate (GPG) chi fa cosa, o cosa potrebbe fare da grande. Non si sono mai realmente concretizzate né le competenze, né e i limiti di questo operaio in uniforme: riempire una volta per tutte questo vuoto sarebbe la rivoluzione copernicana che il comparto della vigilanza privata aspetta dai tempi del Re! E allora viva il Re! C’è un grande bisogno settoriale di allinearsi al resto dell’Europa, che per qualità e competenza è avanti a noi per leggi, operatività e considerazione strategica del settore, che riveste un’importanza e una complementarità di vitale supporto alle forze di polizia statuali, e alle stesse forze armate. Basti pensare alle parole della direttrice del dipartimento di Scienze Economiche di UniVdA, la professoressa Mauri, che citando studi di settore fatti nel 2013 affermò che uno dei mestieri più ricercato, tra i tanti, per il prossimo futuro sarà quello del cd vigilantes: se anche l’accademia ci suggerisce questo, allora è il tempo di riflettere concretamente, voltando pagina.

Piuttosto che niente, meglio piuttosto, recitava un antico adagio. E piuttosto fu: qualcosa di positivo è stato fatto nel frattempo, per mano del dipartimento di PS (Pref. Valentini, V.Pref. De Rosa, Dott D’Acunzo) che tanto si è adoperato, e tanto sta facendo, tra mille difficoltà operative quanto normative, collaborando giornalmente in maniera attenta e mai inutilmente sanzionatoria, in strettissimo contatto con le prefetture, le questure e le stesse aziende. E’ certamente la giusta interfaccia in questo delicato momento di transizione e di applicazione dei decreti ministeriali, e del nuovo disciplinare del capo della Polizia.

Invece per il legislatore si è trattato di piccolissimi aggiustamenti, tardivi correttivi che nonostante i buoni propositi e la tanta volontà, stanno ingessando involontariamente le aziende di settore, che per varie motivazioni, tutte più o meno oggettive e sostanziali, già faticavano operativamente e finanziariamente. Il legislatore ha regolato il settore con un Regio Decreto risalente al 1931 che presenta un’incompatibilità culturale e storica perché ancorato ad una concezione di società socialmente trasformata, un testo unico fortemente discusso da un rapporto fondato, in via esclusiva, sulla discrezionalità dell’autorità amministrativa prefettizia, contraddetto dai nuovi assetti sociopolitici e dal nuovo assetto giuridico costituzionale voluto dalla riforma del titolo V.
E proprio l’attuale contesto socioeconomico e politico imporrebbe una più realistica formazione tecnico-giuridica del settore, e nella fattispecie, della nuova figura che dovrebbe assumere la GPG.3, figura cardine contenuta nel “libro dei sogni” di una sicurezza sussidiaria nata monca, oggi addirittura muta; una GPG che, visto l’attuale assetto legislativo e operativo, è ancora lontana dal nascere, anzi, forse mai realmente concepita! Mi prendo qui la libertà di non essere politically correct: l’obiettivo della sussidiarietà politicamente è fallito in pieno, mai decollato; rimane, peraltro, l’amara constatazione che, anche in un settore in fermento come quello della sicurezza privata, il legislatore stenta nelle risposte.

L’azione politica non è stata capace di valorizzare un mercato che ha conosciuto negli ultimi decenni un concreto sviluppo dal lato della domanda, fenomenologia dovuta al dilagare dei rischi cui è esposto il patrimonio in qualsiasi sua forma, poi materializzata da un’offerta che, beneficiando delle possibilità offerte dalle moderne tecnologie, ha consentito agli istituti privati di porre in essere una moltitudine di servizi, diversificati e collaterali, rispetto alla semplice azione di vigilanza dei beni, servizi maggiormente in grado di adattarsi alle singole esigenze del privato cittadino, quali i servizi di teleallarme, videosorveglianza remota, il trasporto valori, ecc, alleggerendo di fatto, nei controlli e vigilanza, la Pubblica Sicurezza.

Di proposte di legge per la riforma della vigilanza privata ne sono state sfornate in quantità, ma nessuna ha centrato mai i giusti punti di convergenza: servirebbe non la solita legge, ma bensì una vera, definitiva, radicale ed epocale riforma di settore, attesa ormai dal 1931! Una riforma che sia davvero utile e proattiva per tutta la collettività in materia di security, piuttosto che la solita rabberciata scorciatoia politica, perfettamente di scuola italica, per rifuggire sistematicamente dagli annosi, atavici, cronici problemi di un comparto delicato, che qui in Italia non è affatto sistema, anzi: è un famigerato antisistema.

Non c’è una centralità formativa, un istituto d’eccellenza che ponga finalmente le basi per un ripensamento formativo unico, con regole e insegnamenti certi e comuni per tutti gli operatori del settore, che ponga il ruolo della GPG quale cardine principe degli istituti di vigilanza in modo inequivocabile nell’articolato panorama istituzionale del cd sistema ausiliario di polizia, come centralità insostituibile. E nella stessa “academy” andrebbero formate e aggiornate le altre figure professionali: parlo dei Security Manager previsti ormai dal DM 269/2010, manager della security di particolare importanza per la funzionalità dell’istituto, delicata interfaccia con l’apparato di Pubblica Sicurezza, e degli enti governativi preposti.

E ancora: non si è mai pensato a una divisa unica, per colore e foggia, ma con alamari e distintivi di appartenenza propri per ogni istituto; e non è stata mai presa nella giusta considerazione una colorazione unica e univoca dei veicoli in servizio, per dar modo a tutti i cittadini di percepire immediatamente e senza errori la presenza degli operatori della vigilanza sussidiaria, e di riconoscerli socialmente come complemento, quale sussidiarietà della sicurezza pubblica, per principio, al pari delle forze dell’ordine statuali.

Invece siamo allo sbando più totale: GPG senza uno status giuridico vero, istituti alla mercè dei massimi ribassi e spesso di proprietà di imprenditori improbabili, quando non soggetti affiliati alla criminalità organizzata; mezzi diversi, divise diverse, armi diverse, metodologie operative diverse, addestramento inefficace.

E allora? E allora qualcosa non va, non va se un esponente della vigilanza privata in servizio in un porto, aeroporto, stazione o metro non può intervenire per una semplice azione di identificazione personale su soggetti sospetti, o peggio ancora, su soggetti che mostrano evidenti atteggiamenti non conformi all’ordinario comportamento del vivere civile.

Qualcosa non va se una GPG armata, in forza delle leggi, non riveste in servizio la qualifica di pubblico ufficiale limitatamente all’esercizio delle sue funzioni di operatore pubblico di sicurezza sussidiaria, voluta, peraltro, da una legge dello Stato. Perché non può esistere che un semplice controllore ferroviario sia investito della pubblica funzione per un mero esercizio di controllo amministrativo, e una guardia privata – posta, e voluta, in servizio sussidiario alla sicurezza di una stazione, di un sito sensibile, di un’infrastruttura critica (magari un sito nucleare) – rivesta la qualifica di cittadino qualsiasi, rimanendo pericolosamente in balia dei criminali. Non è pensabile che si investano milioni di euro per appalti pubblici (a carico dei contribuenti) in fatto di sicurezza sussidiaria se lo stesso servizio potrebbe svolgerlo altrettanto egregiamente, e a costo zero, il semplice cittadino della strada!

Qualcosa non va se le GPG, sempre pagate con i danari dei contribuenti, passano al servizio pubblico dei primari ospedalieri (verificato personalmente durante un’ispezione con un DG di una grande azienda ospedaliera italiana), facendo gli “uscieri”, o posteggiando le auto private degli stessi “sanitari” arrivati in ritardo in servizio, per giunta sugli stalli riservati al 118, invece di proteggere l’infrastruttura ospedaliera.

Qualcosa non va se per liberare risorse un giorno lo Stato promuove gli autisti delle auto blu ad agenti di polizia temporanei!
Leggiamo insieme questo cameo legislativo: (…) “Diventano legge le nuove norme sulle scorte. E’ stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale 157 del 6 luglio 2002 il testo della legge 133 del 2 luglio 2002 di conversione decreto-legge 83/2002. La legge era stata approvata definitivamente dalla Camera, il 27 giugno 2002. Il provvedimento istituisce l’Ufficio centrale per la sicurezza personale (Ucis), chiamato a gestire in modo più efficace le scorte alle persone potenziali obiettivi di minacce o attentati. Il decreto, varato dal Governo dopo l’omicidio di Marco Biagi, prevede anche la “promozione sul campo” degli autisti privati di auto blu, che avranno le stesse facoltà degli agenti di polizia quando sono alla guida delle loro vetture. Nell’esaminare il provvedimento, infatti, la Camera ha confermato una novità introdotta dal Senato con un articolo aggiuntivo. Il testo stabilisce che ”per esigenze di carattere eccezionale e temporaneo può essere conferita la qualifica di agente di pubblica sicurezza a conducenti di veicoli in uso ad alte personalità che rivestono incarichi istituzionali di governo, al fine di consentire lo svolgimento di una più efficace azione di prevenzione e tutela dell’incolumità di tali personalità”. Ai neo agenti di pubblica sicurezza, quindi “è consentito l’utilizzo, sugli autoveicoli condotti, del dispositivo acustico supplementare di allarme e del dispositivo supplementare di segnalazione visiva a luce lampeggiante blu, al fine di agevolare nei centri urbani la marcia dell’autoveicolo” (…)

Sintesi: l’autista diciamo di un politico, magari corrotto o indagato, diventa per decreto, senza corsi né verifiche personali, un agente di PS; per converso, un furgone portavalori che trasporta 5 milioni di euro deve sottostare al CdS, viaggiare imbottigliato nel traffico, usare un ridicolo lampeggiante arancio che non usano ormai neanche più le “pale meccaniche” nei cantieri! Tutto ciò, mettendo a rischio di un assalto alla diligenza l’incolumità dell’equipaggio, ma soprattutto di tutti coloro che si trovassero malauguratamente nelle immediate vicinanze. Tutto a norma di legge, o meglio: nel silenzio delle leggi!

Qualcosa non va, ribadisco, se anche durante l’ultimo convegno del 3 Marzo sulla sicurezza fisica dei siti nucleari italiani, promosso dall’Enea alla Casaccia, tra i tanti problemi, è saltato fuori il problema che assorbe tutti gli altri: perché la vigilanza privata (che opera all’interno di un infrastruttura complessa) in servizio all’interno di siti “strategici”, anche se sotto attacco terroristico-criminale, non può tentare, a proprio vantaggio e incolumità la benché minima reazione, ma limitarsi ad una semplice telefonata alle forze dell’ordine?

E alla fine qualcosa non va davvero quando leggi poi, in uno dei tanti rapporti annuali del COPASIR (25-01-2013), quanto relazionato dal comparto intelligence alle camere della Repubblica: (…) “L’esigenza di acquisire informazioni sul funzionamento delle strutture interne delle aziende adibite alla tutela della loro sicurezza è derivata anche dalla consapevolezza del ruolo che i Servizi devono svolgere nel campo della tutela delle infrastrutture strategiche e, più in generale, del patrimonio conoscitivo, tecnico e scientifico delle imprese italiane. È sembrato quindi opportuno comprendere più da vicino quale sviluppo sia possibile nella collaborazione tra apparati pubblici e privati almeno in parte convergenti verso analoghi obiettivi (…) Si è venuto ad instaurare un nesso tra le funzioni dell’intelligence privata e quelle proprie della sicurezza pubblica di cui occorre valorizzare le potenzialità ed evitare, al tempo stesso, che si producano confusione di ruoli e sovrapposizioni di competenze (…) Alla netta distinzione dei compiti deve accompagnarsi la previsione di canali e sedi strutturate di scambio delle informazioni. La sicurezza delle imprese può presentare indubbiamente aspetti suscettibili di rilievo per la sicurezza nazionale. Dal complesso delle audizioni e dalla documentazione acquisita, è emerso in linea generale che la globalizzazione e l’insorgere di nuovi rischi per le aziende ha determinato un incremento dei compiti delle security interne, pur in una situazione di risorse finanziarie limitate. Da ciò è conseguita anche un’evoluzione di queste strutture, che sono divenute fondamentali per la stessa competitività delle imprese (…) È evidente, pertanto, l’esigenza di un costante dialogo tra il Sistema di informazione per la sicurezza e il mondo della sicurezza aziendale, anche in una logica di partecipazione e di divisione di compiti per gli obiettivi comuni o in funzione sussidiaria per determinate finalità specifiche. Perché ciò possa realizzarsi è indispensabile che la security aziendale sia dotata di adeguati requisiti di qualificazione ed affidabilità” (…)

Uno degli anelli portanti, nella catena del processo funzionale della security aziendale, è rappresentato proprio dall’operatività e dalla professionalità degli istituti di vigilanza privata, laddove impiegati. Evidenziato, come visto, persino dagli specialisti della sicurezza nazionale: la stessa intelligence pone un quesito interessante sulle possibili e reali potenzialità di una concreta e congiunta azione di cooperazione istituzionale, in sinergia con la security privata.

Eh già, qualcosa proprio non va! Anzi, no: va tutto bene, siamo in Italia.

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